Scivola. Scivola il piede sul gradino della Metro. Sono a 1200 km da quella che, da sempre, ho chiamato casa. Eppure, qui, dall’altra parte del Paese, mi sento, finalmente, al mio posto.
Entro nella stazione. Ogni angolo zampilla di vita. Mi avvicino al tabellone con gli orari dei treni. Vorrei salire su uno di quei dragoni rampanti e dirigermi in un posto senza nome. Vorrei inventarmi di nuovo, esser ciò che voglio e non ciò che sono. Qui, in questa città dove non sono nessuno, mi sento di nuovo io. Stringo la sciarpa un po’ più stretta. Sotto le lenti scure degli occhiali guardo con nuova speranza. Le labbra si increspano. Inforco il burro cacao, lo passo da destra verso sinistra e, poi, di nuovo. Ho sempre amato le stazioni. Puoi sognare nelle stazioni. Credere di salire su un treno che ti porterà lontano, lontano, lontano. Vedo la gente che corre. Altri, ancora, si attardano davanti le vetrine dei negozi. Alcuni si avvicinano ad un vecchio piano lasciato nell’atrio ed iniziano a suonare e cantare. Mi sembrano stelle filanti. E questa scena di colori squarcia il grigiore delle persone affaccendate nei loro pensieri. Mi fermo, li guardo. Canto anch’io, nel petto. Mi unisco ai loro sorrisi. Non sono altro che una ragazza con la sciarpa al collo, gli occhiali da sole e la voglia di cantare. Esco dalla stazione. Prendo un gelato. Lo mordo. Mi sembra di affondare lingua e denti nel mondo. Nocciola. Il solito gusto, ma in un mondo nuovo. Cammino, cammino, cammino. Sono diretta al Parco. Potrei riprendere la metro. Arriverei in pochi minuti. Ma ho bisogno di sentire l’aria in ogni anfratto del mio viso. Guardo, penso, rinasco. Una donna mi saluta. Mi avrà scambiato per qualcuno. Qui, non sono nessuno, se non, di nuovo, io.
Scrittura e foto di Fabiola Lacroce
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